Wiederaufbau. Il restauro dei monumenti e la ricostruzione dell’identità nel secondo dopoguerra tra rottura e continuità nell’opera di Josef Wiedemann Leila Signorelli

Ateneo
Alma Mater Studiorum Università di Bologna

Il termine Wiederaufbau è una sorta di grande cappello sotto il quale si raccoglie l’attività edilizia tedesca a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale; la parola di volta in volta può assumere significato diverso a seconda dell’atteggiamento che gli architetti, chiamati a un confronto complesso e doloroso con città profondamente ferite, hanno messo in campo nei confronti della preesistenza. Nella ricerca di dottorato – discussa nel giugno 2014 – si è cercato di individuare quale significato abbia assunto questa operazione nell’opera dell’architetto bavarese Josef Wiedemann (1910-2001), allievo di Hans Döllgast, impegnato nella ricostruzione di alcuni monumenti tra i più significativi di Monaco di Baviera. L’analisi ha seguito un processo induttivo, occupandosi dei casi studio – scelti come paradigma del suo metodo di intervento –, degli scritti che l’autore ha lasciato a riguardo e di alcuni tratti salienti della sua biografia. È stato architetto professionista (prima e dopo la guerra) e docente dal 1955 presso la Technische Universität di Monaco di Denkmalpflege und Sakralbauten (Progetto di restauro e di edifici di culto), insegnamento fondato proprio durante quegli anni.

La conservazione “viva” dell’esistente – “lebendig” – si esprime così attraverso i progetti di restauro che Wiedemann compie come un alto atto di responsabilità verso la sua città, che si riflette in un percorso introspettivo. La pacificazione della città con le sue rovine si attua in una sorta di andirivieni tra rottura e continuità con il passato, due forze opposte ma complementari nella ricostruzione dell’identità del dopoguerra, una tensione che l’autore, parallelamente ai suoi progetti, vive anche sul fronte personale.

La conservazione “viva” dell’esistente viene declinata con risultati formali differenti nei casi studio, mantenendo un chiaro metodo progettuale, che passa per le fasi imprescindibili del conoscere, del conservare – la materia e la memoria – e dell’innovare. L’Odeon (1951-1952), primo edificio sul quale Wiedemann è chiamato a lavorare, viene ricostruito per ospitare la sede del Ministero degli Interni del Land bavarese e la corte centrale diventa il fulcro del progetto, spazio nel quale si declina il concetto di conservazione “viva”. Successivamente, con l’Alte Akademie (1951-1955) viene messo in campo un’altro tipo di intervento, innestando lo spazio commerciale – completamente moderno – sulla “copia” dell’edificio antico, la cui non originalità viene però evidenziata da un’epigrafe scolpita nel portico a piano terra. La Porta della Vittoria (1956-1958) è un caso studio di grande peso simbolico nel percorso metodologico di Wiedemann; da un lato perché si ispira alla “ricostruzione-manifesto” di Döllgast, l’Alte Pinakothek, dall’altro perché emergono alcuni temi che toccano il dibattito internazionale, espresso attraverso le Carte del Restauro (in particolare quella di Atene del 1931), e quello italiano. L’architetto rifiuta di progettare una copia della porta distrutta e interviene cercando di riequilibrare l’immagine tra la sua facies antica, lo stato dopo i bombardamenti e ciò che essa dovrà diventare in futuro, lasciando in evidenza la lacerazione e caricando di un nuovo significato il monumento, come un monito alla pace. L’ultima ricostruzione in ordine cronologico è la Glittoteca (1961-1962), l’opera più complessa, che chiude l’analisi dei casi studio, riassumendo in modo paradigmatico il suo metodo d’intervento sull’antico.

Gli scritti di Wiedemann testimoniano un impegno di rielaborazione teorica che l’autore compie in modo più intenso verso la fine della vita professionale. Nel discorso Goldener Saal – un testo inedito ritrovato nell’archivio Architekturmuseum della T.U. – l’architetto affronta la delicata questione dell’inopportunità di ricostruire gli edifici storici bombardati perseguendo l’idea di una “copia perfetta”, tema ricorrente durante la ricostruzione postbellica, ma che ancora oggi in Germania si dimostra di assoluta attualità. Wiedemann sostiene chiaramente l’impossibilità di ricreare in modo perfetto un’opera: anche quando sia ammissibile avvicinarsi nel modo più filologicamente corretto allo stato originario, ciò che irrimediabilmente verrà a mancare sarà “l’aura”, quell’afflato che permea le rovine e che la copia non riesce a trasferire in sé. Mancando quel respiro che animava l’opera storica, qualsiasi tentativo di riproduzione che non comporti una riflessione al passo con il proprio tempo, può dar luogo solo a una “sterile imitazione”. In questo deve stare il genio dell’architetto che interviene sull’edificio storico: saper intuire attraverso la propria cultura (spirituale e materiale) “le forme più pertinenti” ad esso, nel rispetto sia del tempo passato, che del tempo presente, al quale il monumento viene restituito.

Josef Wiedemann, attraverso le sue opere, si preoccupa del tema della ricostruzione dell’identità della nazione nel corso del secondo dopoguerra e definisce un metodo operativo inedito che emerge nel panorama della Wiederaufbau tedesca, avendo sempre come obiettivo quello di restituire gli edifici alla città come architetture “vive”, dunque “narranti”, testimoni del loro passaggio attraverso eventi anche dolorosi, dei quali leggere i segni, sui quali soffermarsi riflettere e rispetto ai quali trovare il modo di innescare processi necessari di rottura e continuità.

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